Rocco Chinnici: non chiamatelo eroe

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Un uomo che ha saputo svolgere la propria missione di servitore dello Stato sino in fondo, trovandosi spesso solo nel compito di affrontare la mafia. Organizzazione criminale della quale, negli Anni Sessanta e Settanta, era quasi l’unico a parlare sistematicamente, come di un’entità ramificata e articolata. E’ questo il ritratto di Rocco Chinnici – il magistrato che, per primo, ebbe l’intuizione di costituire un pool antimafia, nel quale operarono anche Falcone e Borsellino – tracciato dalla figlia Caterina, ospite del cartellone estivo della rassegna carpigiana Ne vale la pena, organizzata  dall’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Carpi con la collaborazione di Radio Bruno, Cna, Anioc, Rock no War e Libreria Mondadori, col patrocinio di Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi e Fondazione Casa del Volontariato. Intervistata dal caporedattore di Radio Bruno Pierluigi Senatore, Caterina Chinnici, a sua volta magistrato, ha evocato con commozione l’infanzia e la giovinezza in famiglia, narrata nel suo libro E’ così lieve il tuo bacio sulla fronte. A emergere con forza è la figura di un padre rigoroso, serio e responsabile, capace però di dedicare attenzione e tenerezza ai propri cari. “Mio padre diceva di non avere alcun hobby ma due grandi passioni: il lavoro e la famiglia. Pur dedicandosi completamente ai suoi compiti, ha saputo essere presente, cercando di mantenere sempre, a casa, un’atmosfera di serenità, anche quando le minacce iniziarono a farsi sempre più concrete e frequenti”. Minacce che culminarono nel tragico attentato del 29 luglio 1983, quando una Fiat 126 imbottita di esplosivo lo uccise, a cinquantotto anni, davanti alla sua casa di Palermo, insieme a due agenti della scorta e al portiere dello stabile. Attentato che si fece poco o nulla per prevenire. “Da un informatore della Polizia erano arrivate due segnalazioni sul fatto che stesse arrivando dell’esplosivo in città per compiere un grosso attentato, eppure mio padre non ne fu informato e non fu impedito il posteggio delle auto sotto casa”. Chinnici era ben consapevole del pericolo: “si era recato a Roma per chiedere maggiori mezzi e di essere sostenuto nella sua battaglia, ma non vi fu risposta, se non l’invio di un pacco contenente un improbabile impermeabile e una valigetta foderati di piastre d’acciaio. La verità è che, purtroppo, mio padre fu lasciato solo”. Le difficoltà e la certezza, dopo l’eclatante esecuzione del generale Dalla Chiesa, di essere condannato, non furono però per Rocco Chinnici motivo sufficiente per abdicare dalle proprie responsabilità. “Sia lui che Falcone e Borsellino sono stati assassinati con l’esplosivo. Sapendo che in Sicilia le coincidenze non esistono, mi sono convinta che questa modalità particolarmente feroce ed eclatante sia dovuta al fatto che questi tre uomini hanno rappresentato la minaccia più grande che Cosa Nostra abbia mai fronteggiato, perché ne avevano colto il potere, i livelli di criminalità legati non soltanto ai fatti di sangue ma anche alla finanza e ai rapporti con la politica”. Ricordare l’esempio di Rocco Chinnici e degli uomini come lui non significa, tuttavia, approfittare dell’alibi dell’eroismo per delegare loro l’impegno nella lotta all’illegalità. “Non gli sarebbe piaciuto essere considerato un eroe. Era un uomo normale che ha saputo svolgere un compito eccezionale, applicando la legge con fermezza e grandissima umanità. Andava in visita ai detenuti del vicino carcere e, a Natale, portava loro dei doni. Io credo di aver portato avanti il mio impegno nell’ambito della giustizia minorile perché ho saputo introiettare ciò che mio padre aveva ben compreso, e cioè che la mafia, oltre che sul piano poliziesco, va sconfitta prima di tutto su quello culturale”. Quel 29 luglio di trent’anni fa, ha impresso nella famiglia Chinnici un segno indelebile. “Da allora ci sentiamo come l’albero che, davanti a casa, fu piantato per rimpiazzare l’esemplare distrutto dall’attentato. Più soli e più piccoli”. Tuttavia, è proprio sui semi piantati dall’impegno del padre che hanno potuto crescere le radici di quella cultura della legalità che ha fatto sì che Palermo e la Sicilia siano, oggi, realtà molto diverse da allora.