Storie estreme in Mostra

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Finalmente un bellissimo film di un regista italiano è stato premiato a Venezia nella 70esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Non stiamo parlando del Leone d’oro assegnato a Gianfranco Rosi, bensì di Still life di Uberto Pasolini, vincitore nella sezione Orizzonti. Certamente uno dei titoli migliori di questo festival, unanimemente apprezzato da critica e pubblico. Peccato non figurasse nel concorso ufficiale. Si tratta di una storia semplice: un impiegato del servizio comunale si occupa della sepoltura di quelle persone, prive di famigliari, che vivono e muoiono sole. L’umanissimo John May si sforza di cercare eventuali congiuntie la sua dedizione lo porta a ricercare anche alcune informazioni sugli scomparsi al fine di allestire una cerimonia funebre dignitosa e personalizzata. Così sceglie musiche e compone testi di commiato che lui solo ascolterà, dentro chiese vuote. A causa della crisi economica il suo ufficio viene ridimensionato e il suo lavoro ritenuto insostenibile. Il funzionario si ritrova così senza un’occupazione. Ottiene però di poter completare l’ultimo servizio che gli riserverà un’inattesa e sorprendente conclusione. Grande interpretazione di Eddie Marsan e ottima direzione del regista romano, classe 1957, trapiantato a Londra, produttore del fortunato Full Monty (1997) e autore, nel 2008, della suo primo lungometraggio, Machan. Il concorso ufficiale invece proclama vincitore assoluto, l’italiano Sacro GRA. Un riconoscimento (attribuito al nostro Paese dopo un digiuno di 15 anni) sorprendente non tanto perché si tratta di un documentario, quanto perché non presenta caratteristiche di originalità che lo distinguano da tante altre opere analoghe. L’affresco che si snoda intorno al Grande Raccordo Anulare che circonda Roma è piuttosto ordinario e sostanzialmente già visto. Forse l’unico personaggio davvero originale è il botanico, addetto al controllo delle palme che crescono in prossimità della strada. Un altro mestiere che trascende la sua funzione per diventare un emblematico esempio di missione umanitaria, perché è dalle piccole cose, dalla presenza, o meno, di minuscoli insetti che si può misurare lo stato di salute dell’ambiente. Più condivisibile il Leone d’argento a Miss violence del regista greco Alexandros Avranas. Opera tutt’altro che facilmente digeribile poiché il suo grado di violenza è davvero oltre ogni limite (a paragone Kim Ki-Dik può far sorridere). Siamo all’interno di una famiglia succube di un nonno orco che dispone con la massima indifferenza di figlie e nipoti, anche infanti. Il racconto è di una freddezza assoluta, il rigore è massimo, il crescendo della violenza incessante. Fino a quando… Giusta, quindi, la Coppa Volpi all’attore protagonista Themis Panou che esprime con naturalezza la feroce determinazione del suo personaggio. La Coppa Volpi come migliore attrice è andata all’ottantenne Elena Cotta, protagonista di Via Castellana Bandiera di Emma Dante, qui alla sua opera prima. La strada del titolo diventa la sede di uno strano duello tra due donne che si fronteggiano a bordo delle proprie auto, disposte a resistere pur di non cedere il passo all’altra. Se all’inizio della sfida, la strada è visibilmente stretta, mentre il racconto procede, si allarga anche la strada ed è proprio lì, il senso della messa in scena: quando prevalgono ostinazione e chiusura mentale, la razionalità scompare. Film bello e originale, cui il volto di Elena Cotta contribuisce non poco a rendere credibile una situazione paradossale. L’inquadratura finale, interminabile, svela nel suo fuori campo il senso di un’operazione certamente metaforica ma godibile anche a una prima lettura. Il Gran premio della Giuria è andato a Stray dogs del regista taiwanese Tsai Ming-Liang, altro film alquanto controverso. Si tratta di un componimento originale, frutto di un percorso che dal cinema narrativo degli inizi, sfiorando le particolarità del cinema astratto, approda a un cinema figurativo, dove la trama è sottilissima, le azioni assenti e poche le parole. Siamo in piena ricerca di nuove strade narrative, molto vicine alla videoarte. 138 minuti suddivisi in una settantina di inquadrature, quasi tutte staticamente immobili e alcune delle quali di una durata tale da consentire di osservare ogni minima e impercettibile progressione espressiva degli attori.
La giuria ha assegnato un premio speciale al film tedesco La moglie del poliziotto di Philip Groning, già autore dell’apprezzato Il grande silenzio. Anche in questo film il silenzio la fa da padrone ma la novità più disarmante è la sua scansione in capitoli, 59, aperti e chiusi da titoli su fondo nero, come se fossero quadri a sè stanti. Invece la loro successione ci fa affondare in un incubo di violenza domestica estremamente attuale. Il premio per la miglior sceneggiatura è andato al film in testa a tutte le classifiche di gradimento, sia del pubblico che della critica. Philomena di Stephen Frears ci racconta di una madre alla ricerca del proprio figlio. Siamo in Irlanda e la situazione è quella già raccontata da Peter Mullan in Magdalene vincitore a Venezia nel 2002. Philomena è oggi un’anziana signora che nel 1952, ragazza-madre, viene rinchiusa nel convento di Rosecrea dove suore cattoliche assai poco caritatevoli si “prendono cura” di lei in quanto “donna caduta nel peccato”. Così, come da prassi, un giorno il suo bambino viene “venduto” a dei ricchi americani. La donna, uscita dal convento, passa i successivi 50 anni alla ricerca di quel figlio che le suore dicono di aver dato in adozione. La storia trae ispirazione da un fatto reale, raccontato nel libro The lost child of Philomena Lee, scritto dal giornalista Martin Sixsmith, qui interpretato da Steve Coogan che, conosciuta la donna, si offre di aiutarla nella ricerca che lo porterà negli Stati Uniti alla scoperta della verità. Magistrale l’interpretazione di Judi Dench, perfetta nel suo equilibrio tra dolore e ironia. Infine due parole sul primo film arrivato in sala direttamente dal Lido: L’intrepido di Gianni Amelio con uno straordinario Antonio Albanese come protagonista. Il film immagina che esista un nuovo mestiere: il rimpiazzo. Cioè quello di una persona, un tuttofare, che si offre di sostituire chi, per un motivo o per un altro, deve momentaneamente assentarsi dal posto di lavoro. L’uomo ha un figlio musicista molto meno felice di quanto si possa pensare. Più sereno il padre, pur tra le mille avversità che incontra nel suo improvvisare mestieri tanto diversi quanto poco appaganti. Torna anche in questa pellicola uno degli elementi caratteristici della poetica del regista. Fin dagli esordi di Colpire al cuore (1982) e proseguendo con Il ladro di bambini, Così ridevano, fino al recente Il primo uomo (2011), dove il rapporto padre figlio o tra un fratello maggiore e uno minore è una vera costante.
Ivan Andreoli