Verso la Finale: sarà Davide contro Golia/1 – Lecce)

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LECCE

IL MOMENTO
Condannato a vincere

Se per il Carpi ne è l’apice, per il Lecce questa finale è nient’altro che un incidente della Storia. Non può affatto viverla come un premio. Anzi, si sente sostanzialmente nel posto sbagliato. Schiera una differenza misurabile in circa 800 partite di serie A rispetto all’avversario. E gli cresce di svariati milioni di Euro per monte-stipendi. Ha scontato Scommessopoli, e anche molti peccati durante la stagione, travagliata e innaturale, dentro un palcoscenico che è andato decisamente stretto a tutti. Specialmente alla città. Si è in parte sopravvalutato. Molto più spesso ha sottovalutato la Lega Pro. Ha vissuto la crisi dei supereroi che vedono per la prima volta il proprio sangue. E poi quella dei dittatori quando il popolo s’innamora della democrazia. Avrebbe dovuto uccidere il campionato, condurlo in solitaria. Invece si è ritrovato presto circondato e poi stecchito all’ultima giornata. Perdere l’appello per la serie B, insomma, non sarebbe una semplice questione sportiva. Bensì un fallimento. In primo luogo economico, ma non solo. È dunque condannato a vincere, come se fosse l’ultima tappa di un lungo percorso di espiazione. Arriva all’appuntamento con i giocatori migliori, i favori del pronostico, due risultati disponibili, e la possibilità di disputare il ritorno nel proprio catino bollente. Ma anche con molta pressione, poca condizione, e qualche acciacco importante (su tutti Foti: capocannoniere con 8 reti, da tempo alle prese con la lombagia).

GLI UOMINI
Dubbi a centrocampo

Difficile indovinare l’undici di Gustinetti. Ha sicuramente più angosce lui di noi che proviamo ad ipotizzarlo. Si è appena insediato, è obbligato a ragionare per prototipi, non per assoluti. I dubbi li ha a centrocampo, certamente il reparto più discusso e controverso lungo tutta la stagione. In semifinale ha ragionato in opposizione, schierando un rombo speculare a quello dell’Entella. Con un solo incontrista da vertice basso e la creatività spumeggiante di Bogliacino in trequarti, come collante ideale tra il calcio rock di Memushaj e quello placido, rioplatense di Giacomazzi. Due opposti sovente inconciliabili. Ora però l’infortunio di Zappacosta accorcia la coperta: resta un solo mediano a disposizione, De Rose (al rientro da squalifica). È perciò presumibile che l’assetto cambi, con la rinuncia a una punta. Per infoltire le fasce, prevenire le sovrapposizioni di Sperotto e Letizia, e predisporre raddoppi su Di Gaudio. La prima opzione è il rigenerato Vanin (in gol domenica scorsa); l’altra è la staffetta mancina Chiricò-Falco, ovvero le due schegge fenomenali del vivaio. La difesa invece è un punto di equilibrio. Si è abbastanza stabilizzata con grande esperienza al centro (Esposito-Martinez più Benassi tra i pali), e due terzini diversi sui lati (Diniz: di copertura; Tomi: d’affondo).

LE CHIAVI
“El hombre del pueblo”: il LEC-CHE

L’avversario non c’entra nulla con quello appena battuto in semifinale. Se il calcio fosse una circonferenza, il Sudtirol e il Lecce starebbero su punti separati da un intero diametro. Se fossero musica: uno sarebbe l’opera, l’altro una jazz session. Non c’è coralità a memoria, non può esserci dopo 3 direttori d’orchestra cambiati nel giro di sei mesi. Non può avere avuto tempo Gustinetti di mettere armonia alla melodia. Sa oltretutto di avere poca benzina a disposizione. Punta quindi tutto sugli stimoli dei singoli, sui ticchi, gli estri, le geometrie, gli strumenti e le improvvisazioni individuali. Il Lecce è fondamentalmente una grande squadra mai nata. L’idea di dare uno spartito comune a tutti i solisti è stata impraticabile. Troppo divisi, per passo, abitudini e attitudini di gioco. E pure troppo simili nel volersi prendere il proscenio senza accettare ombre o compromessi. È stato questo il suo limite. Adesso però, non c’è dubbio che dentro una serie di due partite senza domani, possa risultarne la principale forza. Ognuno dei primi violini può bastare perché può risolvere. Ce n’è uno però che più degli altri ne rappresenta l’anima, il senso trascinatore e semplificatore. È Ernesto Javier Chevanton. Il CHE, “el hombre del pueblo”. Un guerriero con due piume al posto dei piedi. In missione per conto della gente che lo ha adottato. L’estate scorsa fu richiamato in Uruguay. Risposta: “No grazie. Ho un debito nei confronti di Lecce. Firmo in bianco, me ne andrò quando mi diranno che non servo più”. È certamente l’unico dei grandi simboli in cui la città riesce ancora a riconoscersi. Quando Lerda lo ha fatto fuori, si è di fatto precluso ogni possibilità di concludere la stagione in panchina. Poi Toma si è abbandonato a lui, fino quasi a spremerlo del tutto. In semifinale, Gustinetti lo ha centellinato. A sensazione, non dispone di più di un’ora ad alto livello. Ma sa come farsela bastare: 4 degli ultimi 8 gol del Lecce sono suoi. Se il Carpi troverà il modo di disinnescarlo, si porterà molto avanti col lavoro.