“La zona industriale di Rovereto è morta”

0
276

Tornare, un anno dopo, tra le strade di quella che era nota come la zona industriale di Rovereto non lascia indifferenti. Il paesaggio, prima di tutto: capannoni che si alternano a macerie, che lasciano il posto ad altri capannoni che mutano poi, in nuove macerie. Quando non un vuoto, una tabula rasa. Più che un bombardamento, sembra quasi che un gigante sia passato di qui e abbia calato il suo pugno, enorme e casuale, su alcuni edifici tralasciando, nella sua furia, gli altri. Poi il silenzio: aspettando sotto il sole caldo di mezzogiorno qui, in via Eugenio Montale, tra gli ossi di seppia di edifici crollati o vuoti, a farsi sentire è solo il vento che passa tra le piante stentate. Pochissime le auto che transitano e praticamente tutte sulla strada principale che porta al centro del paese. O a quel che ne rimane. Il silenzio è il rumore dominante in questo spazio che dovrebbe invece essere animato dal frastuono di camion, furgoni, mezzi di carico e scarico, macchinari industriali, operai che smontano e altri che cominciano il turno. Un silenzio tombale. Ma c’è chi al rumore del lavoro è troppo appassionato per rinunciarvi. Arriva in auto: compatto, una giacca di jeans a coprire un corpo abituato alla fatica. Si tratta di Gino Grulli, fratello e socio di Iorio, l’uomo che, il 5 novembre scorso, è salito sul tetto pericolante della sua Manifattura Modenese, per protestare contro il sequestro del capannone da parte della Procura, perché durante la scossa del 29 maggio la moglie rimase gravemente ferita, e contro le lentezze di una burocrazia che, invece di aiutare la ripartenza del tessuto produttivo, sembrava sortire l’effetto di rallentarla. “Come la nostra azienda ce n’erano poche in Italia – spiega orgoglioso Gino – il nostro compito è quello di impreziosire un abito, che di per sé può essere uguale a tanti altri. Noi lo rendevamo unico, con le nostre finiture. Pizzi, frange, nappe, cordoni, merletti, nastri, paillettes, trecce, cose di questo tipo insomma. Lo stilista veniva qui e ci diceva cosa desiderava fosse aggiunto all’abito, e noi lo accontentavamo, se necessario modificando i macchinari in officina, per venire incontro alle necessità del committente. Pensi che una volta abbiamo intrecciato a un abito del filo d’oro a 18 carati, per Bulgari”. Aveva 13 dipendenti, la Manifattura Modenese. Ora sono rimasti in due: il nipote di Gino e un dipendente, trasferitisi vicino Sassuolo, a Castellarano per ricominciare con tre, quattro macchinari, sulle decine e decine che avevano prima. Ci sarebbero anche i due fratelli, per la verità, ma ogni giorno devono restare accanto alle macerie del capannone che hanno dovuto far demolire. Il secondo capannone, dall’altro lato della strada, è anche quello da abbattere. “Stiamo cercando di interpretare bene tutte le disposizioni della Regione per accedere ai finanziamenti. Forse ci si arriverà a capo, ma ci vuole troppo tempo. La burocrazia è frustrante, perché le normative cambiano da un giorno all’altro. Chiamare i tecnici costa migliaia di euro, che si sommano alle spese degli abbattimenti. Da quando c’è stato il terremoto a oggi ho speso quasi un milione di euro. Per fortuna avevo l’assicurazione sul capannone contro il terremoto, ma anche quella non coprirà mai tutte le spese, e poi quanti, in Emilia, ce l’avevano?”. La frustrazione e la rabbia di Gino derivano dal fatto che non avverte, da parte dello Stato, una concreta volontà di sostegno, anzi: “non ti dicono ‘vai avanti che poi ci sediamo intorno a un tavolo con le carte e ci mettiamo a posto, ma intanto parti’, no. In alcuni momenti sembra addirittura che arrivino a insinuare che ho comprato dei macchinari in più dopo il terremoto, per approfittare di rimborsi che non mi spettano. Ma dico io, è possibile? I soldi dell’assicurazione potevo tenermeli e ritirarmi dal lavoro – Gino ha 59 anni, Iorio 63 – e invece io e mio fratello vogliamo ripartire da qui, perché stiamo bene a Rovereto. Ma ci devono aiutare a procedere, o quantomeno devono evitare di metterci i bastoni tra le ruote. Per quello c’è bastato il terremoto, e per tornare ai livelli di prima ci vorrà tempo”. La Manifattura Modenese non è certo l’unica a essersi dovuta, si spera temporaneamente, trasferire in un’altra zona: le ditte storiche, ci spiega Gino, o hanno chiuso o si sono spostate. “Lungo questa via ci saranno state, in un giorno normale, almeno 200 persone. Ora non c’è più nessuno. La zona industriale di Rovereto è morta, o quasi”. Se Iorio è salito sul tetto, anche Gino ha cercato di far sentire la propria voce alla politica: “ho chiesto ai politici di venire qui a rendersi conto di persona di cosa sia stato il terremoto, di come siamo ridotti – racconta mentre mostra, dentro al capannone rimasto in piedi nonostante le evidenti crepe, i pochi macchinari che è riuscito a salvare – ma fino a oggi non è venuto nessuno. Io sono di Sinistra, non mi vergogno a dirlo, ma lo scorso anno sono andato alla festa del Pd a Modena, per intervenire mentre si parlava degli aiuti ai terremotati, e ho detto a Vasco Errani che non avevano fatto nulla. Sa qual è stata la reazione? Mi è stato detto di piantarla, mi hanno chiesto chi mi aveva mandato a rovinare la loro festa, come fossi un provocatore”. Sul lato dell’edificio, nel cortile, ad arrugginirsi all’aria aperta ci sono 50 metri di metallo, i resti dei tanti macchinari distrutti dal crollo del tetto del capannone. Ognuno di quegli ammassi di lamiera costa, nuovo, dai 10 ai 30mila euro, tanto che per sostituirli tutti, Gino stima un costo di 3,5 – 4 milioni di euro. “Quei pochi strumenti che siamo riusciti a salvare li abbiamo portati via rischiando la vita. Noi non ci stiamo lamentando, non vogliamo ci diano da mangiare, che ci regalino una casa. Chiediamo soltanto che ci facilitino le cose per poter ricominciare. Pensi che, dopo due giorni dalla scossa del 29, mio fratello è andato dentro con un muletto per estrarre dei pezzi di ferro da poter riutilizzare. Mi sono arrabbiato tanto che per poco rischiavo di mettergli le mani addosso. Quando gli ho detto di venire via, perché da un momento all’altro la terra poteva tornare a tremare, mi ha risposto che non gliene importava nulla del terremoto, tanto sua moglie all’ospedale rischiava di morire, e se se ne fosse andata lei anche lui poteva subire la stessa sorte’”. Ed è nel rivivere quei momenti, che la voce di Gino si incrina, a stento riesce a trattenere l’emozione. “Allora gli ho detto: abbiamo iniziato in due e non ti abbandono proprio ora. Io, lui, suo figlio, sua figlia, il marito di lei e mio figlio siamo andati sotto e insieme abbiamo salvato il salvabile”. Ma in questo anno di travaglio non siete mai stati sul punto di arrendervi? “A volte si dice basta, ma c’è sempre la voglia di andare avanti. Ti dici che hai lavorato 50 anni, sei ancora vivo, e che gettare la spugna non è proprio nella tua indole. Veniamo da una generazione che ama questo lavoro, è una soddisfazione fare il nostro mestiere. I soldi che ho, li ho investiti tutti qui. Pensi che ho la passione della bicicletta, e ci andavo da mezzogiorno alle due per non rubare tempo al lavoro. Da quando è venuto il terremoto, non riesco più ad andarci: ti passa la passione per le cose, sapendo che la tua azienda è ridotta così. Vivi, senza l’entusiasmo di prima, né la voglia di divertirti”. In Gino è maturata una nuova consapevolezza: “se non ricevo quello che mi spetta, che non si sognino di chiedermi altre tasse. E se dovessero venire qui per prendermi le cose, io le spacco prima che possano impossessarsene. E’ inaccettabile che io abbia pagato le tasse, svolgendo il mio ruolo di contribuente, per poi ricevere in cambio, nel momento del bisogno, nient’altro che fastidi. Il mio dovere l’ho fatto, ora lo Stato deve fare il suo, perché di belle parole non se ne fa nulla nessuno”.
Marcello Marchesini