Duelli di parole, intrighi e sotterfugi a fin di bene

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Sono passati anni dal debutto cinematografico di Steven Spielberg. Era il 1971 quando sugli schermi apparve Duel e tutti ci appassionammo alla lotta tra un automobilista e un feroce camionista. Da allora la filmografia del regista americano si è arricchita di nuovi capolavori, alcuni votati allo spettacolo e all’intrattenimento, altri diretti a rivedere la storia del proprio Paese e non solo. Si può dire che l’interesse per la storia, quella con la S maiuscola sia per il cineasta americano davvero un’esigenza ineludibile, anche nei titoli apparentemente meno espliciti. Penso al Colore viola e a L’impero del sole. Ma è certamente con Schindler’s list che Spielberg affonda la propria macchina da presa nel vivo degli eventi umani più complessi e in questo caso anche più tragici. Dopo di allora dirige Amistad che affronta le vicende dello schiavismo. Quindi torna sulla seconda guerra mondiale con Salvate il soldato Ryan. Poi è il turno di Munich, coraggiosa rivisitazione dell’attentato alle Olimpiadi di Monaco in cui persero la vita alcuni giovani atleti israeliani. Infine War horse ancora sulla guerra. Oggi, ispirato dal libro della storica Doris Kearns, Goodwin Team of Rivals: The political Genius of Abraham, Lincoln, mette in scena un altro duello, tutto giocato sulla parola, tra il presidente degli Stati Uniti, i suoi famigliari, i suoi collaboratori i suoi avversari politici e i suoi nemici sul terreno insanguinato della Guerra di Secessione. Si tratta di convincere (o corrompere) alcuni onorevoli del Partito Democratico affinché votino il tredicesimo emendamento alla Costituzione, che il presidente è determinato a ottenere, anche a costo di prolungare la guerra che intanto furoreggia tra gli Stati Confederati del Sud e quelli Unionisti del Nord.
Davvero una bella serie di conflitti, sotterfugi e intrighi, risolta per la maggior parte in ambienti chiusi, la Casa Bianca in particolare e il Parlamento subito dopo. Il film si apre e si chiude sul campo di battaglia, tra massacri fratricidi alla baionetta e distese di cadaveri sovrastate da due bandiere contrapposte. Ma sono parentesi brevi che racchiudono un racconto estremamente verboso. Allora si potrebbe pensare che lo spettacolo sia altrove, invece l’ottima sceneggiatura di un grande Tony Kushner (lo stesso di Munich e di Angels in America) sfodera duelli verbali avvincenti e coloriti, ironici e feroci. E così la souspence tipica delle opere del regista stavolta è tutta nel seguire come si giungerà al finale, che tutti naturalmente già conoscono. Tutti infatti già sanno che la battaglia per far approvare il tredicesimo emendamento alla Costituzione americana, quello che il 31 gennaio 1865 abolì la schiavitù, ebbe esito positivo. Quindi la trama è obbligata, la storia è (fortunatamente) questa. L’abilità e lo spettacolo consistono nel vedere e, soprattutto, nel sentire il come si arrivò a quello storico risultato. E qui entrano in campo prima di tutto gli attori. Lincoln inizialmente fu proposto a Liam Neeson ma poi lo si considerò anagraficamente inadeguato al 16esimo presidente americano. Quindi la scelta cadde su Daniel Day Lewis, che però non accettò immediatamente, ma solo dopo aver letto la seconda stesura della sceneggiatura con l’intervento del citato Kushner. L’immagine di Lincoln è strafamosa, soprattutto il suo profilo, con quel mento proteso e ingigantito da un ciuffo di barba, le sopracciglia spesse e il naso importante. Caratteri somatici che Spielberg intende esaltare riprendendo Day Lewis quasi sempre in tre quarti e con luce laterale, proprio per richiamarne il celebre profilo. Determinanti anche i comprimari, a impersonare uno stuolo di congress-men dai modi burberi e dal lessico tagliente. Su tutti Tommy Lee Jones, che dà corpo al più radicale dei sostenitori dell’emendamento, il senatore Stevens, dal ridicolo parrucchino sempre un po’ storto e dai silenzi più fulminanti di qualsiasi aggressione verbale, di cui peraltro non si priva. Personaggio chiave che riserva la vera unica sorpresa del film, che non è certo il caso di rivelare, e tenuta in serbo fino alle ultime inquadrature. Ciò che però davvero rende questo film interessante è il continuo rimando al presente. La vicenda si svolge nell’arco di pochi mesi del 1865, ma è facile leggere in quella battaglia di civiltà quella che, ancor oggi, la parte più accorta e consapevole della classe politica americana (e non solo) combatte per affermare la completa parità delle persone con l’acquisizione di uguali diritti civili. Suona davvero sarcastico sentire le paure di quel tempo relative al voto alle donne, ai negri (come li abbiamo chiamati anche noi fino a poco tempo fa). Impossibile non pensare alle ultime affermazioni di Obama in materia di uguaglianza e rispetto ai gay. E paradosso della storia o, forse, inevitabile e giusta conseguenza di quell’emendamento, il presente è governato da un presidente nero. Un presidente che, come Lincoln, ha ottenuto due mandati. Speriamo solo che Obama non faccia la fine del suo illustre predecessore, che pagò con la vita la sua ostinazione egualitaria. Suona poi curioso il fatto che fosse un repubblicano (Lincoln fu il primo presidente repubblicano) a vestire i panni del progresso e della modernità. Oggi i ruoli sembrano invertiti, i repubblicani sono i conservatori mentre è il Partito Democratico a formulare proposte progressiste e a proclamare il primo presidente nero. Il film, in poche battute, svela anche con chiarezza le vere ragioni dell’opposizione alla soppressione della schiavitù. E cioè che gli Stati del Sud basavano la loro economia prevalentemente sul lavoro degli schiavi. E anche qui il richiamo al presente, a questo mondo globalizzato dove il lavoro in molti paesi è ancora “schiavizzato”, con pochi o senza diritti, è evidente. Peccato che la politica prevalente, oggi, sia quella di togliere diritti al lavoro, quando invece sarebbe il caso di estenderli a tutti, nel mondo intero.
Grande film, con tanti meriti, ma una “piccola” lacuna ce l’ha. Lincoln non ci dice che mentre si liberavano i neri dalla schiavitù, si combattevano le guerre contro i nativi americani. Risultato: Pellerossa quasi estinti e costretti nelle riserve. Speriamo nel prossimo film. Intanto buona (ottima) visione.
Ivan Andreoli