La classe dirigente non ha smesso di rubare, ma di vergognarsi!

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I magistrati italiani sono quelli che lavorano di più in Europa; inoltre, le risorse assegnate alla giustizia sono sufficienti, pressappoco quelle stanziate negli altri principali Paesi europei. Ma allora come mai, nel Bel Paese, entrare in tribunale significa dare l’avvio ad un accidentato percorso dai tempi biblici che, più che per assicurare la giustizia, sembra predisposto per permettere ai mascalzoni di cavarsela, vessando nel contempo i cittadini onesti? A rispondere alla domanda da un milione di euro Piercamillo Davigo, già Sostituto Procuratore tra i membri del ‘pool’ investigativo che a Milano diede l’avvio, con le sui inchieste, alla stagione di Mani Pulite e ora consigliere presso la Corte di Cassazione a Roma. Intervistato dal caporedattore di Radio Bruno Pierluigi Senatore, Davigo ha spiegato – a partire da Processo all’italiana, il suo ultimo libro scritto insieme a Leo Sisti – che: “Innanzitutto ci sono troppi procedimenti pendenti, circa nove milioni. Per quel che riguarda le risorse, che sarebbero bastanti, va detto che le spendiamo male, con troppe sedi di tribunale, il che significa uffici giudiziari troppo piccoli per aver ragione di esistere”. Altro nodo cruciale, quello della lobby degli avvocati: “Nel Regno Unito ci sono 3,5 avvocati per ogni giudice. In Francia otto. Sei in Germania. In Italia il numero sale a trentatré”. Ma esistono cure possibili, o ci si deve rassegnare ad una giustizia ingiusta e inefficiente? “Occorrerebbe prima di tutto che ci fossero meno processi, e questo sarebbe possibile depenalizzare molti reati che negli altri Paesi reato penale non sono. Se a questo si aggiunge il numero enorme delle impugnazioni delle sentenze – basti pensare che la Corte Suprema degli Stati Uniti, con 300 milioni di abitanti, celebra ogni anno circa 80 processi, mentre alla Cassazione ne spettano, per lo stesso arco di tempo, grossomodo 10mila – è evidente che la prescrizione dovrebbe essere modificata, per disincentivare l’avvocato difensore ad appellarsi, perché ora come ora il massimo che gli possa capitare è di veder riconfermata la condanna del suo cliente, mentre in altri Paesi questa può essere anche aumentata”. Tempi lunghi al punto che si è passati dal ‘Ti faccio causa’ al ‘Fammi causa’, magari pronuncia spavaldamente dal furbetto di turno. Ma cosa è cambiato a 20 anni da Tangentopoli? Quella stagione è servita ha insegnato qualcosa all’establishment italiano? In merito Davigo è sin troppo chiaro: “Purtroppo, al cambiamento di etichette politiche non è corrisposto un analogo mutamento dei comportamenti. Anzi, tutta la politica, di Destra come di Sinistra, si è data da fare per impedire la possibilità di svolgere processi alla corruzione. I politici non hanno smesso di rubare, semplicemente hanno cessato di vergognarsi”. Complice di questa situazione, secondo Davigo, sono anche le ‘politiche di rassicurazione’ messe in campo dai vari Governi: “Per anni ci è stato detto che il vero problema era la microcriminalità, tanto che per i reati di strada si parla di delinquenti, mentre per quelli dei colletti bianchi, al massimo, di disonesti. Ma provate a considerare questo: il caso Parmalat ha fatto 40mila vittime, persone che per le malefatte di Callisto Tanzi hanno perso i risparmi di tutta una vita. Ora, quanto ci mette uno spacciatore a rubare 40mila vecchiette? E quante di loro portano in giro per strada i risparmi di una vita?”. In realtà i numeri parlano di reati costantemente in calo, dai 1700 omicidi all’anno dei primi anni ’90 ai 700 del 2000, metà dei quali si verificano, per di più, in contesto familiare. Meno di Francia e Gran Bretagna, tanto per capirci. Ma tutto questo allarme serve, secondo Davigo, a distogliere l’attenzione dai reati dei colletti bianchi, meno visibili e quindi più ‘occultabili’: “In realtà la lotta a corruzione e all’evasione è la lotta alla classe dirigente di un Paese dove i ricchi rubano più dei poveri. Negli USA a Madoff hanno dato 155 anni di carcere, e lui ha pure ringraziato il Giudice per la clemenza. Quando lo hanno condannato, l’ex patron di Parmalat ha dichiarato di non aspettarselo. Ed aveva ragione: in Italia non è normale veder condannato un uomo potente”.
Marcello Marchesini