Siamo in primavera, almeno a giudicare dai vestiti. In un cortile interno, tra il cemento, il verde degli alberi e i raggi del sole – i più coraggiosi, quelli che riescono a superare la barriera delle alte mura del palazzo – lasciano immaginare una bella giornata, calda ma non troppo. L’atmosfera è tranquilla, sospesa. Silenziosa. Tipica di quegli angoli di pace che, a cercarli bene, a volte si incontrano, come per incanto, quasi nascosti nel caos delle grandi città. Nelle immagini predomina il grigio di architetture geometriche, squadrate, eleganti nella loro statica fluidità. Sopra questi blocchi, chi non ti aspetteresti di trovare: un gruppo di ragazzi, degli skateboard, scarpe da ginnastica, felpe appoggiate dove capita, rumore di passi, giovani voci. La scena non ha un titolo: l’immagine, se è quella giusta, parla da sola. Sono questi i tre scatti che hanno permesso alla carpigiana Sara Cavallini di essere una degli 11 finalisti selezionati tra i 120 partecipanti al concorso fotografico Carlo Scarpa, uno sguardo contemporaneo, dedicato all’architetto e designer veneziano. Le foto saranno esposte al Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, presso Palazzo Barbaran a Vicenza, fino al 18 settembre. Sarebbe contento Carlo Scarpa – mancato nel 1978 – di vedere la sua architettura ancora ‘viva’, contemporanea proprio perché riutilizzata, ricontestualizzata, non trasformata dagli anni in sterile monumento, ma trasformata per scopi anche molto diversi da quelli per i quali era stata originariamente concepita. Lui, architetto che amava il restauro di edifici preesistenti e la realizzazione di nuovi progetti in antichi contesti, forse sorriderebbe nello scoprire, oggi, che dei ragazzini utilizzano le rampe d’ingresso della biblioteca della Facoltà di Architettura di Venezia, da lui progettata, per compiere evoluzioni con le loro tavole. E sarebbe contento che ad accorgersi di questo, a dargli importanza, sia stata una giovane ragazza dagli occhi gentili, riservati, che sembra non ti guardino mai direttamente, pur dandoti la sensazione che nulla, di quel che conta, gli sfugga. “Il concorso richiedeva di pensare a delle immagini che potessero rileggere alcune sue architetture, con un massimo di 6 fotografie – commenta Sara – e, dal momento che queste strutture sono già state il soggetto dei lavori di molti importanti fotografi, ho pensato di immortalarle in un momento un po’ insolito. Recandomi più volte sul posto, ho notato che c’erano ragazzini di 12, 13 anni che utilizzavano i moduli quadrati o le rampe per fare skate. Mi è sembrata una maniera di fruire un’architettura diversa da quella canonica. E chiaramente un po’ ironica. Non avevo nessuna idea di come sarebbe andata, ma mi aveva colpito il fatto che questo concorso fosse in collaborazione con il Maxxi, il Museo d’arte contemporanea di Roma”. Sara non ha mai fotografato specificatamente architetture, mentre molti dei partecipanti erano specializzati in questo campo e collaboravano già per prestigiose riviste. Questo non fa che dare risalto al suo eccellente risultato. “Ho studiato per tre anni Nuove Tecnologie per l’arte all’Accademia di Venezia. Non so come sia nata in me la passione per questa disciplina. Mio padre da giovane ne era molto appassionato, ma non penso derivi da questo. So soltanto che già dopo la Scuola Media sapevo di volermi occupare di arte o letteratura. Anche per questo scelsi l’Istituto d’arte Venturi di Modena”. Ora la giovane fotografa sta partecipando alla selezione per il Master di alta formazione sull’immagine contemporanea alla Fondazione fotografia di Modena, perché vorrebbe approfondire la sua ricerca stilistica per cercare, in futuro, di proporsi a gallerie d’arte, più che puntare sull’aspetto commerciale. “E’ una strada molto più difficile, ma voglio tentare. Mi piacerebbe molto partire con delle collaborazioni, lavorando magari con qualche rivista”. Tra le scuole che ama di più, c’è la fotografia oggettiva, quella contemporanea tedesca in particolar modo, sulla quale sta scrivendo la tesi. “Mi interessa soprattutto la scuola di Dusseldorf, per esempio Barbara Hofer, che crea immagini apparentemente molto fredde, oggettive. Mi affascina molto”. Sia per il concorso al quale è arrivata tra i finalisti, sia per le sue predilezioni artistiche, Sara è attratta dal contemporaneo: “per me significa intermedialità. Vale a dire non dover parlare per forza di fotografia ma di immagine. Non di video o performance bensì di opera d’arte. Approcciarsi all’arte non in modo settoriale, puntando sulla capacità comunicativa del linguaggio, sul contenuto insomma”. Video che interagiscono con fotografie, che si mescolano a loro volta con pittura, musica e letteratura. Postmoderno, insomma. Chiudendo gli occhi Sara si vede in giro per paesaggi nordici: Norvegia, Finlandia e Islanda. “La mia conquista più grande è quella di aver saputo lasciare da parte i virtuosismi, dato che sia alle superiori che all’università abbiamo avuto una certa impostazione fotografica ‘da studio’, per consentirci di essere in grado di utilizzare al meglio un mezzo. Se però l’obiettivo è quello di fare arte, allora a volte occorre saper puntare a ciò che davvero è essenziale”. Ogni artista, diceva Raymond Queneau, può variare soltanto all’interno di un canone di cui padroneggia sino in fondo le tecniche. E’ così che immaginiamo Sara tra qualche anno, persa nei grandi e vuoti spazi del Nord, pronta a cogliere, dietro il silenzio, il frastuono dell’esistenza. Incurante di regole, scuole, tradizioni e accademie. Nello zaino l’unica cosa che serve davvero: la capacità di lasciar trapelare il mondo dentro di sé.
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