La forma dell’Oscar: la celebrazione della diversità

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Previsione confermata: La forma dell’acqua vince quattro Oscar di cui sicuramente i due più importanti. Miglior film e miglior regia. Quindi lode a Guillermo del Toro che coerentemente con la sua poetica continua a rigenerare il fantasy aggiungendo sempre qualcosa in più che va oltre il mero aspetto spettacolare e conferisce consistenza e profondità tematiche alla leggerezza espressiva. La sua attualissima favola si svolge nel passato, ci parla di un mondo, ideologicamente bipolare, superato che però ha lasciato il posto ad una bipolarità geografica, economica, oltre che politica, vorrei azzardare umana. Il film mette in scena due aspetti: da una parte la curiosità, l’interesse che sfocia nella comprensione, nell’amore per l’altro, il diverso, dall’altra un atteggiamento di disprezzo e sfruttamento di qualcuno-qualcosa che viene ritenuto estraneo, inferiore. Il valore delle favole è spesso quello di rendere evidenti le ingiustizie, i soprusi, il disvalore. Dal Brutto anatroccolo a Cenerentola a questa favola moderna l’umanità può riflettere su se stessa e scegliere da che parte stare. Oggi che le favole scritte o raccontate hanno lasciato il posto alla visione, al cinema, è davvero notevole che ci sia chi non si accontenta di proporre spettacoli di solo intrattenimento, ma si preoccupi di inserire nelle proprie creazioni artistiche un sottotesto di grande valore etico-morale. La vicenda di un’umile donna delle pulizie, novella Cenerentola, osa l’impossibile, osa l’innamoramento e compie un balzo tra i generi: si può amare qualsiasi essere. Metafora che riprende naturalmente quella di un’altra fiaba, La bella e la bestia, ma la aggiorna e la contestualizza in modi e tempi inaspettati. E qui gli altri due Oscar ricevuti lo testimoniano. La scenografia è fondamentale per offrire ai personaggi e alla trama un ambiente consono, “naturale”. E Del Toro non si risparmia nemmeno l’omaggio cinefilo: tra i luoghi del film oltre al laboratorio c’è anche una sala cinematografica, vista con un occhio amorevole nel suo triste crepuscolo, quasi a voler lanciare un segnale sul futuro stesso del cinema. La musica accompagna e sottolinea ma con estrema discrezione, mai a scapito dell’attenzione. Infine un complimento va rivolto, oltre che all’Academy hollywoodiana, alla Mostra del cinema di Venezia che anche quest’anno ha premiato col suo Leone un film trionfante agli Oscar. Segno di particolare fiuto nel selezionare i titoli da inserire in concorso. Due anni fa La La Land sfiorò il massimo riconoscimento ma sei statuette le portò a casa: Daniel Chazelle come miglior regista, Emma Stone come miglior attrice oltre ai due premi alle musiche e alla fotografia.
Quest’anno migliore attore è risultato Gary Oldman per la sua intensa interpretazione di Wiston Churchill in L’ora più buia. Una performance davvero superlativa in un film che ha fatto il paio con Dunkirk nel raccontarci alcuni passaggi salienti della partecipazione britannica alla Seconda guerra mondiale. Migliore attrice la grandiosa Frances McDormand, straordinaria interprete dell’irriducibile donna che smuove con la sua ostinazione e col suo coraggio l’apatia e l’ostilità di un tranquillo paesotto del Missouri. I suoi Tre manifesti a Ebbing diventano un solo, vero grande manifesto di un cinema che coniuga perfettamente impegno e divertimento, ironia e serietà, rabbia e pietà.
Personalmente attendevo con particolare interesse il premio al miglior film straniero e il verdetto non mi ha affatto deluso, anzi. Una donna fantastica del regista cileno Sebastian Lelio era stato davvero convincente. Anche in questo film il tema della diversità è preponderante: si tratta della vicenda di una transessuale che vive una storia d’amore con un uomo divorziato. Quando lui improvvisamente muore subisce gli affronti della polizia che la sospetta di avere a che fare con quella morte e le angherie della ex famiglia di lui che la caccia di casa e la vuole escludere perfino dal funerale. C’è un’immagine nel film che da sola lo racconta tutto: Marina, questo il nome dalla protagonista, cammina su un marciapiede contro un vento fortissimo che la costringe a piegarsi in vanti e ad avanzare con una fatica bestiale. Davvero efficacissima sia sul piano estetico che simbolico. Rispetto agli altri concorrenti nella stessa categoria vale la pena sottolineare che ancora una volta l’Academy sceglie e premia una storia di diversità. Sarà un caso? Se poi aggiungiamo che l’Oscar alla miglior sceneggiatura non originale va a James Ivory per Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, allora è proprio vero che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto. Infatti anche questo titolo ci racconta un amore tra due giovani ragazzi durante un’assolata estate italiana. Il quasi novantenne regista americano ha adattato per lo schermo l’omonimo romanzo di André Aciman (edito in Italia da Guanda) restituendone le atmosfere, i caratteri, ma soprattutto la meraviglia del primo amore, qualsiasi esso sia, quello che (forse) non si scorda mai. Una vittoria questa, che indirettamente premia anche un regista italiano dalle alterne fortune nel nostro paese. Che qui dà prova di saper costruire immagini convincenti e di discrezione assoluta e di far recitare ai suoi attori con naturalezza dialoghi un po’ criptici e l’identico tormentone letterario: dopo!   
Ivan Andreoli

 

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