Tardigradi e cambiamenti climatici

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La rivista Journal of Experimental Biology ha pubblicato un importante lavoro scientifico frutto degli studi condotti presso il laboratorio di Zoologia Evoluzionistica da un gruppo di ricercatori Unimore, coordinato dalla professoressa carpigiana Lorena Rebecchi, classe 1962, comprendente anche il professor Roberto Guidetti e la borsista Ilaria Giovannini del Dipartimento di Scienze della Vita e la ricercatrice dottoressa Tiziana Altiero del Dipartimento di Educazione e Scienze Umane. Lo studio ha cercato di dare una risposta alla possibilità di sopravvivenza ai cambiamenti climatici dei tardigradi antartici. I dati raccolti e pubblicati dai ricercatori modenesi hanno consentito di evidenziare come i tardigradi abbiano una buona resistenza ai cambiamenti climatici, ma l'effetto combinato degli stress potrebbe causare una riduzione delle popolazioni se questi cambiamenti fossero molto elevati e di lungo periodo. “Tuttavia, supponendo che i cambiamenti climatici globali procedano gradualmente, i tardigradi – fanno sapere i ricercatori Unimore – così come molti altri organismi antartici, potrebbero avere il tempo e la capacità di adattarsi alle nuove condizioni ambientali, sempre che l’ambiente circostante non si trasformi così radicalmente da non riuscire più a mantenere l’habitat adatto per la loro sopravvivenza”. Lo spunto per lo studio dei ricercatori Unimore è partita dal presupposto che i cambiamenti climatici, quali aumento della temperatura e delle radiazioni UV, hanno un impatto notevole sugli ecosistemi, soprattutto su quelli antartici che sono sensibili anche a piccole variazioni delle condizioni ambientali. In ambienti estremi quali quelli antartici, i tardigradi sono assai diffusi e abbondanti: questi animali, detti anche orsetti d’acqua per il loro aspetto pacioso, sono microscopici (< 1 mm), hanno otto zampe con le quali si muovono su muschi e licheni di cui si nutrono attraverso due stiletti appuntiti che gli escono dalla bocca. I tardigradi riescono a vivere alle basse temperature dell’Antartide, che possono scendere fino a -60°C, grazie alla loro capacità di congelarsi o seccarsi insieme al substrato in cui vivono per poi tornare attivi quando le condizioni ambientali ritornano idonee. Quando sono secchi, il loro metabolismo è sospeso e in questo stato fisiologico, detto anidrobiotico, sono in grado di resistere a temperature più elevate di quella di ebollizione dell’acqua, a temperature vicine allo zero assoluto (-253°C), a forti radiazioni ionizzanti, al vuoto assoluto e a pressioni inimmaginabili. “Ma quando questi animali sono attivi, non sono secchi, – si sono domandati i ricercatori Unimore – qual è la loro capacità di resistenza? Riusciranno a sopportare il riscaldamento del loro ambiente e l’aumento delle radiazioni UV dovute al buco dell’ozono presente sull’Antartide?” Per rispondere a queste domande i ricercatori del laboratorio di Zoologia Evoluzionistica del Dipartimento di Scienze della Vita di Unimore, hanno esposto in laboratorio animali attivi e animali secchi della specie Acutuncus antarcticus raccolti in Antartide ed allevati a Unimore, a temperatura e radiazioni ultraviolette elevate. La specie oggetto di studio è composta da sole femmine che si riproducono per partenogenesi (le uova cioè si sviluppano senza essere fecondate). I ricercatori hanno prima sottoposto gli animali e le loro uova ai singoli stress e poi a stress combinati (alta temperatura + UV). Da questi esperimenti è emerso che gli animali sopravvivono bene ai singoli stress, ma gli stress combinati hanno un’azione sinergica negativa riducendo leggermente la sopravvivenza. Sorprendentemente quando gli animali secchi sono sottoposti ad entrambi gli stress, come avviene in natura, la loro sopravvivenza cala più di quella degli animali in stato attivo. “Probabilmente – spiegano i ricercatori Unimore – a causa del fatto che quando sono attivi riescono a riparare in breve tempo i danni causati alle molecole (es. danni al DNA causato dagli UV), mentre in stato anidro i danni si accumulano ed una volta riattivati gli animali non sono più in grado di ripararli”. Uova abortive e neonati con malformazioni sono stati osservati nelle generazioni ottenute a partire da uova all’inizio dello sviluppo embrionale ed esposte ad alte dosi di radiazioni UV. I danni al DNA causati dai raggi ultravioletti non sono riparati dagli embrioni precoci, mentre sono facilmente riparati dagli embrioni al termine dello sviluppo embrionale e prossimi alla schiusa delle uova.

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